Con traduzione di René Capovin
Abstract
In questo articolo, flana Gershon usa la teoria dei sistemi di Niklas Luhmann come una fonte antropologicamente rilevante. La sintesi dell’impostazione sistemica fornita nella prima sezione dell’articolo lascia poche speranze: quella che viene evidenziata è la distanza rispetto alle assunzioni epistemologiche che accompagnano il lavoro degli etnografi. Uno dei presupposti centrali della teoria dei sistemi, il darsi cioè di “sistemi senza sé”, può essere addirittura considerato una sorta di postulato anti-etnografico. Eppure, nonostante le apparenze, tale distanza si rivela produttiva in una serie di lavori antropologici, discussi da Gershon nella parte centrale dell’articolo: dallo studio dell’auditing alla critica del pluralismo legale, dall’analisi della percezione del pericolo alla riflessione sulla bio-sicurezza, i ‘sistemi’ diventano buoni per pensare antropologicamente quando messi in contesto, ‘esperiti’ dagli interlocutori dell’etnografo, contraddetti ed elusi dalle pratiche degli attori. Più problematico appare un riuso antropologico della concezione luhmanniana di “cultura”, presentata e criticata nell’ultima sezione dell’articolo.
In this essay, Ilana Gershon employs Niklas Luhmann’s systems’ theory as an anthropologically significant source. The outline of the systemic set up the author presents in the first section of the essay leaves us with little to hope for: what comes to light is its distance with the epistemological assumptions that accompany the work of ethnographers. One of the crucial assumptions of the systems’ theory, i.e. the existence of “selfless” systems, can even be looked upon as a sort of anti-ethnographic postulate. However, no matter how it may seem at first, such a distance shows its productivity through a series of anthropological works, as they are discussed in the heart of Gershon’s article: from the study on auditing to the critique of jurisdictional pluralism, from the analysis of the perception of danger to the reflection on bio-security, once they are contextualized, “experienced” by the ethnographer’s interlocutors, and contradicted and eluded by the actors’ practices, “systems” become “good to think” anthropologically. What appears as more problematic is the anthropological re-use of Luhmann’s conception of “culture”, as it is presented and criticized in the final part of the essay.