Mara Benadusi — La scuola già e non ancora interculturale. Memorie e narrazioni dal campo

Abstract

Le retoriche mediatiche che accompagnano il dibattito italiano sull’integrazione scolastica dei minori stranieri fanno ricorso, con toni sempre più allarmistici, alla metafora della «scuola-ghetto». Si è addirittura parlato di «discriminazione al contrario», verso gli Italiani, segnalando l’urgenza di stabilire delle quote per limitare l’inserimento degli alunni di provenienza straniera. Ad una più attenta analisi emerge, però, un’ambivalenza di fondo: mentre la scuola che accoglie alunni con origini etnico-nazionali differenti è «oasi» se si guardano le cose da un punto di vista interculturale, usando cioè gli occhiali di una cultura scolastica orientata all’accoglienza dell’altro e alla valorizzazione della diversità; essa diventa «ghetto» quando si mettono le lenti di una società civile razzista e intollerante. Le ambivalenze della deriva ghettizzante permeano le stesse istituzioni scolastiche: se l’integrazione avviene in modo parziale, infatti – solo in alcune scuole e non in altre, solo in alcune classi e non in tutte –, essa produce una graduatoria tra scuole di serie A e scuole di serie B, tra classi ghetto e classi non. Così, smembrata dal suo ‘non essere ancora’ e al tempo stesso ‘essere già’ interculturale, la scuola italiana appare più che mai esposta a venire silurata vuoi dalla propaganda buonista di stampo progressista, vuoi da un «cattivismo» politico roboante che inneggia all’orgoglio verso la cultura e le tradizioni nazionali. Non ancora veramente radicale ed efficace, nel modo in cui viene impostata e poi incorporata nelle pratiche educative, e non più semplicemente intesa come pedagogia speciale e compensatoria surrogato di una reale integrazione, l’intercultura segnala la crisi di un modello di multiculturalismo all’italiana ancora tutto da immaginare, da discutere, da farsi. L’articolo interpreta gli scombussolamenti in atto nelle istituzioni scolastiche alla luce delle esperienze etnografiche vissute nel quartiere di Tor Pignattara a Roma, quando, alla fine degli anni ‘90, la scuola italiana cominciava da poco a cimentarsi con il paradigma interculturale. A partire dall’insieme di routine, gesti, linguaggi, relazioni diversificate che hanno luogo a scuola, viene mostrato come le differenze etnico-nazionali diventino problematiche solo quando fungono da fenotipo di conflitti ancora più persistenti e radicati, legati a fattori di classe, di censo, di potere. Per aiutare gli alunni a rischio di fallimento scolastico bisognerebbe allora «voltar loro le spalle», smettere di ragionare su come trattare o prendersi cura delle differenze a scuola e provare invece a volgere lo sguardo in direzione contraria, mettendo a fuoco proprio gli sforzi congiunti che tutti noi facciamo quotidianamente per riconoscere, etichettare, spiegare e più in generale occuparci del problema.

The current Italian debate over the integration of young immigrants at school is progressively adopting more and more alarmist tones and evoking the metaphor of the “ghetto-school”. Even “reverse discrimination” against Italians is becoming a key word in the present debate, especially when the press underlines the urgent need to reduce the supposedly high proportion of immigrants per class in order to avoid the risk of a glass ceiling that prevents Italians from advancing in education. If we look more closely at the phenomenon, however, a fundamental ambivalence comes into view: if we adopt an intercultural point of view, a school that hosts students of different national and ethnic origins is viewed as an oasis; if we instead adopt the lens of a racist and intolerant society, the same school becomes a ghetto. In any case, the ambivalence permeates the educational institutions themselves: if integration is only promoted in some schools and not others, in some classes and not all, an immediate consequence is a sort of ranking between “good” schools and “bad” schools, between ghetto-classes and normal-classes. The Italian school system is therefore torn between being “not yet intercultural” and at the same time “already intercultural”. Our school system risks being torpedoed by both populist neoliberal propaganda and a renovated conservatism that sings the praises of national tradition and Italian culture. If we observe the incorporation of the intercultural approach in Italian educational practices, it appears neither truly mature nor truly effective; at the same time, “intercultura” is no longer considered to be a pedagogical surrogate for real integration. For this reason, the intercultural issue reveals the crisis of an Italian multiculturalism that is still to be imagined, discussed and translated into practice. The paper outlines the current tensions in our scholastic institutions from the foundation of my ethnographic experience in the Tor Pignattara suburbs of Rome, when I studied the early implementation of the intercultural approach in Italy at the end of the 90’s. Starting from a series of cultural practices and rituals performed at school – routines, gestures, languages and diversified interactions – the paper seeks to show how ethnic and national differences become ‘problems’ only when they are associated with already deeply rooted and ongoing conflicts connected to factors such as class, demographics and political power. Therefore, in order to provide real, substantive support to pupils at risk of failure, it is probably better to “turn our back on them”, to stop worrying about how to treat cultural differences and instead turn our attention to an analysis of ourselves and the efforts we make to detect, label, explain and generally take charge of the issue.