Abstract
Il saggio riflette su alcune ‘finzioni narrative’: quattro libri, un film e uno spettacolo teatrale; tutte aventi oggetto la guerra eliminazionista perpetrata sul finire del ventesimo secolo dagli Hutu contro i Tutsi. Queste finzioni narrative compongono un genere divenuto egemonico nell’industria culturale occidentale, divulgativo ed estetico allo stesso tempo: il frutto di una traduzione culturale che, per rendere comprensibile un fenomeno quale la violenza genocidiaria – ritenuto convenzionalmente altro o degli altri – usa le parole e le vite di questi stessi altri e cosı` mette in comunicazione mondi diversi. Dunque il referente di questa riflessione è il ‘paradigma testimoniale’ – ovvero la centralità riconosciuta al soggetto, il valore discriminante attribuito all’esperienza individuale, il realismo implicito nell’affermazione ‘io ho visto, io c’ero’ – tutto a partire dalle forme con cui viene usato e consumato per e dal pubblico prevalentemente europeo. L’ipotesi è che ognuna delle fonti esaminate sia stata composta a partire da una cornice culturale predefinita che, attraverso la retorica della testimonianza, ha familiarizzato il contesto locale a uso di quello globale (o di fruizione). L’obiettivo è svelare ciò che le finzioni oscurano: l’avvenuta esportazione di una immaginazione etnocentrica ed egemonica, costruita intorno a una visione naturalizzata della memoria e della testimonianza, per lo più isolata dai contesti di applicazione, dall’interazione con gli attori locali, e derivata dall’estensione acritica di un modello narrativo, interpretativo e terapeutico precostituito.
This paper analyses some ‘narrative fictions’: four books, one film and one performance about the last Rwandan genocide. All these narrative fictions constitute an aesthetic and instructive genre recognised by the global cultural industry. This genre uses the experiences narrated by witnesses, victims and executioners. Therefore the point of this paper is how subjective experiences are used by a Western audience to understand genocidal violence, conventionally considered as something alien and belonging to others. The question is whether the narrative documents used by the author reveal cultural frames to ‘domesticate’ the event or not, and if and how these cultural frames translate the experiences of violence from the perspective of witnesses to that of Western audiences. This procedure could mask the Westernization of Rwandan genocidal remembrance through a wrong interpretation of memory’s mechanism as exported by the cultural industry.